Il Dalai Lama sfida apertamente Pechino

Giù le mani dal Tibet. Il Dalai Lama lo ha detto molte volte e ripetuto in numerose forme, ma nella guerra pacifica che conduce contro il regime comunista cinese forse la frase non l’aveva mai pronunciata in modo così chiaro. Lo ha fatto l’8 marzo, quando ha voluto un bimbetto mongolo di otto anni a fianco del proprio trono durante l’importante cerimonia del potenziamento Chakrasamvara, che fornisce le condizioni atte a legare la mente di chi lo riceve allo stato di illuminazione spirituale. Durante il viaggio che compì in Mongolia nel 2016 il Dalai Lama aveva riconosciuto il piccolo come la nuova reincarnazione di una delle figure più importanti del buddhismo “cugino” mongolo, ma non è affatto un semplice aneddoto di folklore religioso: è un gesto di sfida aperta a Pechino, e duplice.

Anzitutto il riconoscimento del bambino operato dal Padre indiscusso della nazione tibetana viola apertamente quella direttiva paradossale, ma significativa, con cui il Partito Comunista Cinese ateo, che quindi non crede né alla reincarnazione né ad alcun soprannaturale, ha avocato a sé il diritto di stabilire chi abbia il permesso di reincarnarsi, raggiungendo il ridicolo attraverso l’emissione di un permesso di Stato. In secondo luogo, il ragazzino scelto dal Dalai Lama è stato riconosciuto come la decima reincarnazione di Khalkha Jetsun Dhampa Rinpoche, uno dei leader maggiori del buddhismo mongolo, capo della scuola spirituale Gelug (la stessa di cui è vertice il Dalai Lama) in Mongolia.

Ora, il buddhismo mongolo altro non è che una variante locale del lamaismo tibetano, ma soprattutto costituisce la vera identità di un popolo diviso fra Mongolia indipendente, già costantemente sotto le grinfie del comunismo vuoi sovietico vuoi maoista, e Mongolia cosiddetta interna, inglobata dalla Cina. A suo tempo i sovietici compirono massacri a nord nel tentativo di sradicarne l’anima religiosa; dal 1959 a oggi i cinesi vi perpetrano a sud un genocidio culturale che mira alla pulizia etnica come in Tibet e nello Xinjiang degli uiguri.

Uno dei perni del buddhismo tibetano e mongolo è il lamaismo, e questo si regge tutto sulla dottrina della reincarnazione. Pechino sa perfettamente, e lo ha sperimentato negli anni, che chi riesce a controllare la religione dei tibetani, alternando il bastone della repressione aperta alla carota dell’infiltrazione subdola, controlla l’intero popolo del Tibet. E sa pure benissimo che, per chiudere la partita, il modo migliore è addomesticarne la persona di riferimento. Ma se nei decenni il Dalai Lama è riuscito a sottrarsi all’abbraccio mortale del comunismo cinese, la pantomima sui lasciapassare per reincarnarsi concessi ai lama graditi al regime è in realtà solo un tentativo per accerchiare il Dalai Lama, in attesa di imporre il suo successore.

Il buddhismo tibetano e mongolo crede che tutti gli esseri senzienti si reincarnino in base a come abbiano condotto la vita precedente, ma pure che il Dalai Lama e altri spiriti illuminati possano guidare il corso delle reincarnazioni. Il Dalai Lama può allora anche scegliere di non reincarnarsi, e qui alla Cina verrebbe a mancare un’arma formidabile di ricatto e di repressione. Se invece scegliesse di reincarnarsi, i leader della religione tibetana dovrebbero individuarlo attraverso valutazioni delicate e grazie alle indicazioni lasciate dal Dalai Lama precedente stesso, oggi il XIV. Se un domani Pechino riuscisse a condizionare il processo di riconoscimento, il XV Dalai Lama sarebbe una pedina del regime dai poteri speciali. Un fantoccio che costringesse i tibetani a sottomettersi al PCC spaccherebbe infatti i fedeli fra chi obbedirebbe per lealtà a un impostore, pur vedendo l’inganno, e chi denuncerebbe la farsa, provocando divisioni letali. Ma, disobbedendo platealmente ai diktat del regime, il Dalai Lama ha anticipato Pechino, ristabilendo il primato della religione sulle manovre assolutistiche dell’ideocrazia comunista e mandando un messaggio inequivocabile a tutti.

La cerimonia preliminare del potenziamento Chakrasamvara, durata due giorni, è avvenuta a  Dharamsala, il “piccolo Tibet” che vive in esilio in India dal 1959, allorché l’Esercito cinese completò l’occupazione militare di un Paese un tempo indipendente. Vi hanno partecipato circa 5mila monaci buddhisti provenienti dai Paesi più diversi, evidenzia Vijay Kranti, giornalista indiano specialista di cose tibetane. Quando, prima o poi, il bambino verrà intronizzato ufficialmente nel suo ruolo, sarà il punto di non ritorno. Gli occidentali non avvezzi ai modi dell’Oriente potrebbero non cogliere fino in fondo la profondità del gesto compiuto dal Dalai Lama. Fa pensare a una variante orientale della profezia di Virgilio: l’avvento di un bimbetto mongolo già colpisce al cuore il drago rosso comunista, e rinnova il tempo.

Marco Respinti è direttore responsabile del quotidiano online in lingua inglese “Bitter Winter: A Magazine on Religious Liberty and Human Rights

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